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martedì 10 aprile 2012

Ogni maledetta domenica

Ebbene si. Quest'oggi scriverò della mia peggior domenica. Non tanto come risultato delle mie decisioni sul campo. Anzi, quelle neanche le ricordo perfettamente a dire il vero.
Ricordo però che quel giorno diluviava. E diluviava così forte che solo chi ha abitato questa città (che per questioni di anonimato non citerò) può capire cosa voglia dire.
Borsa pronta come al solito, percorso studiato con minuzia. Ero pronto ad affrontare questo nuovo match.
Come al solito sarei dovuto arrivare al campo, di mattina, con i mezzi pubblici.
Ora, andare in giro con la borsa degli arbitri non proprio leggera e anche abbastanza ingombrante, con l'ombrello e cambiare due o tre mezzi pubblici già non è il massimo delle partenze. Ma diciamo che avevo ormai fatto l'abitudine e, più di tanto, non mi pesava.


Il campo era in una posizione tanto panoramica quanto assurda. Ebbi poi l'opportunità di 'godermelo' anche in giornate più belle e, vi devo dire la verità, raramente mi sono capitati panorami e scenari di quel tipo. Ma quella mattina il cielo era plumbeo e l'acqua sembrava destinata a rimanere sopra quella città per sempre.
Nella mia testolina ingenua già pensavo: «ma si, con tutta quest'acqua dovrò sicuramente rinviarla...».
Arrivato al campo, però, dovetti prendere atto della verità. Il campo, in rigorosa terra battuta, era praticabile. Probabilmente l'ingegnere che l'aveva progettato era un genio. Aveva una capacità di scolo tale per cui, soltanto le fasce laterali oltre le linee risultavano in qualche modo parzialmente allagate ma, il resto del campo, era se non perfetto, quasi.
Non persi neanche tempo a tentare di convincere i capitani. Loro volevano giocare, e si vedeva, inutile tediarli con il discorsetto sul 'rischio', ecc...
Quando entrai in campo per fare due prove di rimbalzo con il pallone presi atto che, quella partita, doveva cominciare e, molto probabilmente, anche finire sotto quella pioggia che era divenuta nel frattempo sottile sottile, quasi impercettibile ma, comunque, costante nel suo scendere a bagnare tutto il bagnabile.

Dal canto mio, vi posso garantire che già giocare sulla terra battuta in condizioni normali non è il massimo; potete solo immaginare cosa voglia dire giocarci in quelle condizioni.
Quando finii il primo tempo ero bagnato ovunque, compreso negli indumenti intimi che potevo tranquillamente strizzare. Mi asciugai alla bene e meglio, sorseggiai il tiepido sciroppo di rose (l'unico custode dell'unico campo al mondo che preparava quella bevanda) e ritornai sul campo.
Come se non bastasse la pioggia sottile si trasformò veramente in un acquazzone con vento laterale che rendeva al limite dell'impossibile l'arbitraggio. La partita però, poteva continuare. Si cominciò a formare qualche pozza d'acqua in alcune porzioni di campo, qualche giocatore della squadra che perdeva provò anche a sollecitare la sospensione ma, a quel punto, fui inamovibile.
La partita s'era cominciata e andava finita, fosse anche cascato il mondo!
Tanto ormai m'ero bagnato, il campo comunque era praticabile e, di certo, non avrei fermato a poco meno di un quarto d'ora dalla fine se non per condizioni estremamente avverse.
Arrivammo alla fine. Avevo il fango ovunque. Le scarpe, da nere, erano diventate marroni in un tuttuno con i calzettoni.
Ebbi a malapena la forza di farmi la doccia calda, più per il desiderio di ripulirmi da quel fango che non per la voglia di far sentire ancora dell'acqua alla mia pelle. Tanto, sapevo perfettamente che mi sarei bagnato di nuovo dal tragitto che portava dallo spogliatoio al capolinea dell'autobus.
Furono i cinquecentro metri più terribili della mia vita. Stanco, carico con un mulo, in salita a percorrere una scalinata che sembrava divenuta interminabile. Neanche una stramaledetta pensilina per attendere quell'autobus.
Arrivò dopo circa dieci minuti e dopo altri venti ripartì. Cambiai la prima volta e poi la seconda per dirigermi verso casa. Mi attendeva il sesto piano del palazzo, senza ascensore, che mi accoglieva da quasi un anno.
Avrei voluto dormire nell'androne. Feci quell'ultimissimo sforzo. Mi asciugai prima di buttarmi a letto.
Il giorno dopo, la sentenza, fu abbastanza scontata. Trentanove di febbre, medicine e una giornata passata nel caldo del letto. 

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